mercoledì 10 novembre 2010

Caro De Corato,
ti vorrei scrivere perchè le tue parole mi hanno
fatto sentire scomodo.

Oggi un quotidiano milanese ha pubblicato la
...notizia dell'arresto di tre persone colpevoli di aver coinvolto in attività
illegali alcuni giovani reclutati con la forza o con l'inganno in orfanotrofi
della Romania[1].
Nello stesso articolo si riportava anche un tuo commento sulla cosa, dicevi che
“su questi aspetti chi parla di accoglienza e integrazione tace”. Questa
allusione al silenzio mi ha fatto venire voglia di risponderti. Conoscevo
questa storia perchè sono parte di un'associazione che lavora in Romania con i
ragazzi e le ragazze abbandonate, provando a costuire attorno a loro reti
sociali di protezione e supporto. A Milano, negli ultimi anni, abbiamo
ritrovato alcuni di loro; chi intraprendeva una serena avventura migratoria e
chi invece era rimasto incastrato nei circuiti dell'illegalità e dello
sfruttamento. Qualcuno ci aveva raccontato nel dettaglio la sua storia, facendo
il nome di alcune delle persone arrestate l'altro giorno. Abbiamo messo le
nostre limitate risorse a disposizione degli operatori e delle organizzazioni
che sul territorio si rivolgono a minori in migrazione e con loro abbiamo
provato a sostenere i più fragili.

Vorrei risponderti che nessuno di noi tace, né è
mai rimasto in silenzio. Ci attiviamo, costruiamo sapere e prendiamo posizione
ogni giorno. Lo facciamo sul campo, con i nostri strumennti di comunicazione e
nei nostri network. A Milano tante persone e organizzazioni stanno da tempo a
fianco delle persone vulnerabili, e noi -nel nostro piccolo- proviamo a
renderci utili.

Vorrei risponderti che sui temi dell'illegalità non
facciamo mai fatica ad esprimerci. Prima di tutto perchè siamo convinti, e non
siamo gli unici, che le responsabilità penali siano individuali; proiettarle su
gruppi e nazioni è nel migliore dei casi un grave errore, nel peggiore
un'indebita strumentalizzazione. E poi vorrei risponderti che ci siamo abituati
a relazionarci con le persone a prescindere dalle categorie a cui qualcuno dice
che appartengano, e ci impegnamo a incontrarle e conoscerle con in testa valori
come quelli del diritto, della dignità e del rispetto.

Ma questo te l'hanno già scritto in tanti, e allora
mi sa che non ti rispondo. Mi sa che non ti scrivo perchè non voglio che le mie
parole siano sassolini da lanciare contro i tuoi macigni. Vorrei che fossero
attrezzi al servizio del cambiamento, occasioni per riformulare le mie domande,
non una qualche risposta alle tue provocazioni. E tutto questo non può avvenire
negli spazi che non ci hai mai aperto.

Mi sa che non ti rispondo, perchè non appartengo al
tuo universo, perchè voglio prendere le distanze da contenitori in cui non mi
riconosco non solo per i contenuti, ma pure per le forme. Io non ho nulla a che
fare con i tuoi allarmi, i tuoi slogan, i tuoi modi.

Mi sa che non ti rispondo e mi rivolgo a
qualcun'altro, alle persone al cui fianco ho lavorato in questi ultimi anni.
Propongo a loro di cogliere questo senso di scomodità che mi ha preso per
tornare a illuminare gli interrogativi che non vogliamo mettere da parte. Prima
di tutto l'interrogativo sul ruolo che abbiamo avuto noi nelle storie di questi
ragazzi. Sulla nostra capacità di leggere e prevenire situazioni di
vulnerabilità come queste. Esperienze di sfruttamento e fatica, ma anche di
progettualità e crescita. Potevamo dovevamo agire in modo diverso? Vorremo
farlo in futuro? E poi l'interrogativo sul come porsi rispetto alle tue parole.
Forse non dovremmo stancarci di intervenire ogni volta che la parola è usata in
modo strumentale per orientare il reale. Oppure
la questione non dovrebbe essere la stanchezza, ma una scelta esplicita
di sottrazione rispetto a logiche comunicative che si muovono come ruspe ad uno
sgombero.

Chissà.

Andrea

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