lunedì 14 marzo 2011

I giapponesi e il cataclisma

Terremoto, tsunami, disastro nucleare: cultura dell'obbedienza e voci critiche. Un'intervista a Renata Pisu

In questi giorni post-apocalisse impazza sulla stampa uno dei consueti stereotipi con cui amiamo inquadrare i popoli d'Oriente: i giapponesi sono ligi e composti. In tutti i media nostrani si sottolineano, con un misto di ammirazione e perplessità, comportamenti singoli e collettivi: la scolaresca che si mette in fila ordinata mentre cadono le pareti, i familiari delle vittime che ricompongono i cadaveri senza ostentare il dolore.
Cerchiamo di entrare un po' più in profondità nella cultura nipponica del cataclisma con Renata Pisu, studiosa e giornalista che ha vissuto a lungo in Giappone.

Che impatto può avere un evento come quello che si è verificato sulla coscienza dei giapponesi?

Molti sono piuttosto critici rispetto al sistema di prevenzione. Le autorità ti dicono di tenere il kit antiterremoto in casa, di nasconderti sotto il tavolo quando le cose cominciano a cadere e così via. E i giapponesi sono ligi. Nello stesso Giappone però c'è molta gente che contesta questo modo di introiettare l'obbedienza all'ordine senza porsi domande sulla razionalità del sistema.
Gli stessi criticano anche il fatto che a forza di sentirsi ripetere che ci sarà il terremoto, uno si abitua e non ci pensa più.

Un evento catastrofico di questo genere può determinare un diverso approccio? Mi ha colpito la testimonianza di una donna giapponese che diceva: "Abbiamo i vulcani alle spalle e il mare tutto intorno, siamo sulla terra più sismica del pianeta e costruiamo pure le centrali nucleari. Forse dobbiamo ripensare tutto".

Chi è critico, contesta tutte le scelte che il Giappone ha fatto dal dopoguerra in poi, compreso il nucleare. È possibile che l'evento drammatico li spinga al cambiamento, però non si capisce come cambiare. La terra che hanno è quella.
C'è tutta una letteratura fantascientifica sul Giappone cha affonda nel mare. Un romanzo catastrofista del 1973 di Sakyo Komatsu, da cui hanno anche tratto un film, si intitola proprio Nihon Chinbotsu, il Giappone affonda. Nel giro di trecento giorni sparisce l'arcipelago e lo sforzo si concentra sul tentativo di far accettare a tutti i Paesi del mondo quote di giapponesi.
È l'immaginario della fine del Giappone, che poi determina la cultura dell'effimero: tutto dura poco, la vita è breve. I progetti si fanno al massimo di cinque anni e c'è anche un certo autocompiacimento da cui derivano gli haiku e tutta la poesia. È l'impermanenza.

Godzilla è la minaccia che viene dal profondo e dal mare: terremoto più maremoto?

Godzilla - (Gojira in giapponese, ndr) - è soprattutto la minaccia nucleare: un mutante creato dalle radiazioni atomiche. Nella prima versione sono quelle prodotte dagli americani a Hiroshima e Nagasaki. Poi, nella seconda e terza edizione, per rimuovere l'accusa implicita agli Usa, si è data la colpa ai test nucleari dei francesi.
Ora il Giappone ha più di cinquanta centrali nucleari. Tante.

Che consistenza ha il movimento antinucleare giapponese?

È forte. In Giappone c'è una società civile, ignorata, che è attivissima. Ci sono le donne, molte casalinghe. Ma non hanno accesso al potere politico e a quello del business.
Il punto è che i giapponesi sono certi che ci siano radiazioni nucleari e che siano nocive. La mentalità popolare probabilmente ritiene che gli effetti siano ancora più gravi di quelli dichiarati ufficialmente, visto che le ricerche sull'argomento sono tenute segrete.
Ma tutto si traduce nella discriminazione verso chi ha subito il bombardamento atomico e perfino verso i loro figli e nipoti. Si pensa che siano contaminati, portatori di mutazioni genetiche.
Ricordo che a fine anni Ottanta, quando ero a Tokyo, nelle "lettere al direttore" di un giornale una signora chiedeva: "Devo fare un viaggio, con noi c'è anche una comitiva di Hiroshima. Sarà sicuro andare negli stessi gabinetti?"
Li chiamano i "colpiti dall'esplosione", hibakusha. Lo stesso nome si dà a chi è contaminato dalle radiazioni del nucleare civile. Si pensa che continuino a mutare attraverso le generazioni.
C'è una cultura del nucleare molto complessa, ma si preferisce non parlarne. Quando si verificò il disastro di Chernobyl non ci fu dibattito. Il problema era liquidato dicendo: "Da noi le centrali sono molto più sicure".

Mi sembra ci sia un forte meccanismo di rimozione, che si nota anche in un altra vicenda di cui lei ha scritto su Repubblica: quella degli "zingari del nucleare", i precari che fanno le pulizie nelle centrali.

Il meccanismo è quello del subappalto. Questi lavoratori sono giapponesi poveri che vengono assunti per fare le pulizie da ditte che hanno il subappalto del subappalto. Quando vanno a lavorare hanno delle targhette per segnalare le radiazioni a cui sono esposti. Dopo un certo limite, dovrebbero smettere di lavorare. Invece vengono mandati in un'altra centrale a fare lo stesso mestiere. Sono loro stessi a volerlo, spesso cambiano addirittura nome, tanto non c'è il sindacato che controlla e un sistema di protezioni per il lavoratore. Assumono dieci volte le radiazioni consentite. Se si ammalano, nessuno li ha mai visti né conosciuti. Sono migliaia. Quelli che si prendono il cancro e hanno il coraggio di denunciare si riducono ad alcune decine.
C'è rimozione, sì, perché tutto deve funzionare bene, secondo armonia. Adesso però vediamo che conseguenze determinerà quest'ultima catastrofe.

Gabriele Battaglia

Tratto da Peace Reporter, articolo del 13/03/2011

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